Calci miei: il primo mezzo secolo di Claudio Cammarata…
Dodicesima uscita della rubrica ” Ti dipingo così… a tu per tu, a parlar del più e del meno, con…”
a cura di Concetto Sciuto
Calci miei: il primo mezzo secolo di Claudio Cammarata…
Esiste una regola nel redigere un articolo giornalistico: evitare di superare le 3600 battute. Bene, oggi non sarà così, e non per irriverente mancanza di rispetto per tale regola, ma perché descrivervi in così poche battute un personaggio del mondo del calcio come Claudio Cammarata, con quasi mezzo secolo sul groppone trascorso a rincorrere in un ruolo (da attaccante) o nell’altro (dirigente/segretario/addetto alla sicurezza) una sfera, sarebbe una (impossibile) impresa da circensi della tastiera.
Prima però non possiamo non annotare una notizia che lo riguarda nell’immediato: dopo tre anni ha dato l’addio al Licata dove ha ricoperto il ruolo di dirigente con i risultati visibili a tutti, annuncio oramai risaputo non fosse altro che da giorni campeggiava sui quotidiani sportivi e non solo, e difatti lo becchiamo al telefono, per fissare l’appuntamento per questo nostro incontro, mentre sta acquistando in edicola (roba d’altri tempi) una copia del quotidiano catanese dove c’è l’ennesimo articolo su questo suo addio. Ma riportata la notizia di cronaca sportiva, adesso andiamo oltre per scoprire che …
Claudio Cammarata nasce a Gela nel 1962, una laurea in Scienze Politiche, ed è (buon per lui?) figlio d’arte. Difatti, il papà era un ex calciatore che non poté mai esordire nel Catania della serie A degli anni ’70 solo per mancanza di spazio in prima squadra, purtroppo in quel periodo non erano previste sostituzioni. E qui entra in gioco, in tutti i sensi, quell’impalpabile processo empatico di trasmissione di valori e passioni che, per una legge non scritta, avviene spesso tra genitori e figli, e che agisce come il più potente demiurgo modellandoti percorso, destino, mete. Il ragazzo non ha derogato a tale regola, anzi è andato molto oltre gli insegnamenti, indiretti, ricevuti dal papà. Attaccante di razza, dal PGS Sales fino in serie C immagazzinando esperienza su esperienza tra terra battuta, sputi e minacce, evitando tackle assassini, sorbendosi sconfitte per arbitri compiacenti, etc. etc. nulla di nuovo sotto il sole delle categorie minori con, inoltre, spogliatoi invasi dai dirigenti della squadra ospitante o i patron dei prossimi avversari dei tuoi avversari e non certo per porgerti il loro benvenuto: paura tanta, ma sarà tutto grasso che cola in esperienza per il futuro da dirigente. Abbiamo già anticipato che sforeremo (e non di poco) il numero di battute previste, ma se stessimo qui ad elencare i suoi trascorsi calcistici, l’articolo verrebbe (giustamente) cestinato, pertanto ci sia concesso “l’onore delle armi” di un salto temporale di qualche lustro, raccontando subito come da calciatore sia riuscito ad attraversare il guado che dal rettangolo verde lo ha fatto approdare dietro il rettangolo di una scrivania. Strana scelta per un ragazzo dedico a fare l’attaccante e che del pallone era innamorato più dell’amore e invece la casualità, la pura casualità, lo ha trascinato in un nuovo percorso. E questa risposta semplice che riceviamo, che non enfatizza nessun supponente merito personale, delegando al caso che di fatto pochi meriti ha, mette la nostra chiacchierata sui giusti binari della sincerità, ovviamente fin dove gli è permesso esserlo, ma crediamo alla fine di aver sfiorato un buon 75% che al giorno d’oggi non è poco. Pertanto, il destino ha voluto che il suo percorso incrociasse quello di un tal…Franco Proto nel periodo che aveva rilevato la Leonzio (1992) e che, quasi contestualmente alla triste vicenda del Calcio Catania del ’93, gli spalancò definitivamente le porte al calcio professionistico prima dei trent’anni. Esautorato il classico “sogno o son desto” in breve tempo, dopo la (poco) edificante esperienza di lavorare come un mulo (come aspettare di vedere punzonati diecimila biglietti e trasportare a mano gli scatoloni, Sigh!) per poi venire ripagato con ottimi assegni “cabriolet” (verba volant scripta manent), inizia a percepire ancora meglio in quale sistema sociale, come il calcio, aveva vissuto fino adesso dove, magari impegnato a cacciare il pallone in rete, non aveva fatto tanto caso a certe storture. Chi di voi desiderasse afferrare ancor più il senso di quanto detto, osservi attentamente in basso la copertina del suo libro (Calci vostri), ecco, quell’assegno non è mai esistito nei contenuti ma solo in apparenza, per i dettagli rivolgersi a pagina 177. Poi, una delle sue più grandi soddisfazioni è stata quel lontano 6 maggio 1997 quando ottenne l’attestato dopo aver frequentato il corso per direttore sportivo, e grazie anche alla laurea scalò posizioni su posizioni fino a un prestigioso quarto posto fermandosi solo davanti a giocatori del calibro di Franco Causio. Chapeau. Da lì ha ricoperto vari ruoli in un turbinio di squadre e così dopo la Leonzio e l’Atletico Catania, si va a San benedetto del Tronto, Paternò, Catania, nuovamente Catania, San Gregorio, Troina, Licata. E qui chiediamo a Cammarata se questo suo alterno percorso sia legato più a un suo desiderio di rinnovarsi che alle circostanze. “No, è la figura del dirigente sportivo o del segretario generale che intrinsecamente non prevede di attecchire nel medesimo luogo per più un certo numero di anni, e inoltre fino adesso non ho mai bussato alla porta di nessuno ma è sempre stato qualcuno a suonare il campanello di casa mia e dietro la porta spesso trovavo diverse offerte”. Risposta più che sufficiente e così passiamo alla domanda successiva per soddisfare la stuzzicante curiosità di conoscere come fa a mutare approccio, ruolo e linguaggio gestendo, contestualmente, situazioni polari che spaziano dalla seria A ai dilettanti. Dalla risposta si comprende che deve tutto alla duttilità del suo carattere e alle esperienze pregresse che gli permettono di relazionarsi con i club stellati e, a volte nel medesimo orario, dirigere telefonicamente una squadra di prima categoria. Il che tecnicamente significa commutare da un linguaggio forbito per il Marotta/Gagliani di turno a…”Turi non ti scuddari i scappi e a fascia do capitanu”. Non è semplice, ma si può fare. E su nostra richiesta ci spiega, in poco meno di un minuto, alla sua velocità di parola prossima a quella della luce, il delicato compito dell’addetto alla sicurezza, ruolo che esiste da decenni e mai ricoperto come la legge vuole fino al…caso Raciti. Da allora non si muove foglia, dai biglietti, agli accrediti fino agli striscioni, passando per i circuiti video, se l’addetto alla sicurezza non lo voglia, e ci fa anche un breve excursus sulla figura del segretario generale: bene, quando leggete l’altisonante acquisto di un giocatore ricordatevi che burocraticamente dobbiamo a questo ruolo oneri e onori (di certo più i primi) della rifinitura e messa in essere del contratto. Meno chiara è stata la funzione di dirigente e non volendo dilungarci troppo a chiedere nuove spiegazioni, e approfittando di questo mare tempestoso che è la sua verve dialettica, coniugata a una direttamente proporzionale disponibilità, si tenta il colpo grosso provando a trascinarlo nell’edulcorata trappola del gossip. E con l’acquolina in bocca, generata dalla più dozzinale curiosità, che ci facciamo raccontate del suo rapporto di odio/amore con lui…il Direttore… Lo Monaco, in arte Zio Pietro. E si capisce già dalle prime battute che il secondo termine(amore) è quanto di più pleonastico possa esserci. Ma prima di soddisfare questa curiosità da Bar dello Sport sul loro incontro/scontro, il nostro interlocutore fa un passo indietro nel tempo riportandoci a quando ancora stentava a credere di avere in mano le chiavi del Cibali dove: “non avrebbe scommesso cinque lire che un giorno potesse arrivare a tanto” (sue testuali parole). Parliamo del Catania dei Gaucci, poi arrivò l’era del binomio Pulvirenti – Lo Monaco e fu un “tutti fuori gli uomini dell’ancien regime” e solo il suo contratto biennale lo salvò. Un lustro e giù le dimissioni per…” incompatibilità di carattere” … due termini che racchiudono tutto ciò che noi possiamo immaginare.
Tra claudicanti approcci verbali, instabili rapporti umani(?), inenarrabili aneddoti che fanno il paio con ciò che il Direttore ci aveva abituato nelle sue teatrali conferenze stampa, dove la comunicazione era ancora allo stato brado, Cammarata non ha retto. Indimenticabile, ci racconta, il suo andirivieni tra casa e il Massimino ingessato come uno spaventapasseri, dopo una brutta caduta durante lo svolgimento del suo dovere per il Catania. La malattia non era un istituto previsto a quelle latitudini, e con questo episodio la precedente crepa era diventata uno squarcio, per poi spezzarsi del tutto con la vicenda Bergessio dove, pochi minuti dopo aver registrato la sofferta (burocraticamente) firma dell’attaccante, Cammarata decise che il suo destino si sarebbe separato da quei due colori che forse ha amato più di tutti. In ciò che racconta si può cogliere quanta passione infinita ha per questo lavoro che a volte lo ha portato in conflitto con sé stesso perché, d’accordo che “pecunia non olet”, ma sono state troppe le volte che bisognava usare una dose disumana di “scaltrezza” nell’agire e accettare, inoltre, diverse “porcherie” (termine copiato dalla copertina e qui incollato) non facili da deglutire anche dopo decenni di esperienza. E in questo Camel Trophy di contratti, accordi sottobanco, pugnalate da idi di marzo, partite poco limpide (sorge il dubbio che però queste cose le sappiate già), bisognava muoversi senza respirare troppo la malsana aria del dietro le quinte. Ma il calcio per lui è come un figlio e si sa: lo si ama sempre, anche se a volte non segue la retta via.
Siamo quasi alla fine per accorgerci che il foglietto delle nostre domande è diventato, quasi subito, carta straccia, perché non si riesce proprio a fermare questa esondazione di esperienze, aneddoti, date, nomi di giocatori, di dirigenti, di squadre. E, credeteci sulla parola, fa paura (termine usato eludendo impropri eufemismi e nel pieno senso della primigenia portata semantica) la sua memoria: Cammarata ricorda tutto e tutti. Sembra afferire alle informazioni abiurando qualsiasi teoria dei cassetti della memoria, perché a questa velocità non ci sarebbe nemmeno il tempo di aprirli e pensiamo che, per reggere questi ritmi, gli si stata innestata una SSD da 5 terabyte di ultima generazione. Eppure, nell’attimo che sta sorseggiando un ottimo latte di mandorla, si riesce a porgli una delle poche domande previste: quale sono state le tre persone che hanno inciso di più nella sua vita.
Silenzio. Inaccettabile, non è da lui, finalmente siamo riusciti a stoppare la sua verve e dopo averci ringraziato per la domanda, tira fuori il nome di Nino Corsaro, suo pigmalione e deus ex machina del futuro dirigente, nome citato più di tutti gli altri sul suo biografico amarcord editoriale.
Riconosce in lui, senza titubanze, un vero amico fraterno della prima ora e che fino adesso ha mantenuto inalterato questo bene prezioso che è l’amicizia in un mondo, come quello del backstage del calcio, dove essere fieri di credere in questo valore è come mostrare un crocifisso a un vampiro.
E poi i suoi due figli, senza cadere nell’errore di pensare che abbia tirato fuori due nomi da quanto di più scontato possa esistere.
Difatti, ci confida che l’amore per loro gli ha insegnato il valore delle proprie radici in un ondivago percorso professionistico, dove potresti perdere prima te stesso e, inevitabilmente, subito dopo ciò che ti circonda. Alessio e Lorenzo, ci fa capire con orgoglio, e in un palese momento d’emozione, sono stati la sua Itaca dove sentiva di dover sempre (ri)tornare, vincendo il richiamo delle sirene di un ambiente che se non lo domini ti domina: anima compresa. Ci accorgiamo, a fine della nostra chiacchierata, che la stessa è durata casualmente quasi novanta minuti che ci hanno permesso di scoprire il dietro le quinte di un personaggio dello sport e della sua incommensurabile passione per il calcio che rasenta la malattia. E siamo certi di questa affermazione dopo che ci ha ripetuto più volte “so di essere da ricovero, immaginate che da ragazzino mi creavo io i campionati di tutto punto, dai nomi dei giocatori a quelli delle società”. Inoltre, scopriamo che, essendo un patito di subbuteo, nel periodo di quarantena (non ditelo a nessuno) giocava contro sé stesso! Beh, magari non è proprio da ricovero ma crediamo che spesse volte alla follia gli abbia dato del tu… è il pensiero che non osiamo rivelare ma che ci frulla in testa ascoltando questa matrioska di esperienze. Ma poi ci ricordiamo che sono stati i folli a guidare l’umanità nel raggiungimento di utopiche mete, pertanto gli auguriamo nuovi orizzonti da conquistare e chissà forse in tinta rossazzura, notizia che Claudio Cammarata non conferma ma nemmeno smentisce. Pertanto, un “ni” ancora tutto da scoprire.
Catania, 11 giugno 2020
Concetto Sciuto per Sport Enjoy Project Magazine
( fonte foto Claudio Cammarata )
Questo aticolo è stato pubblicato sulla pagina on-line su www.sportenjoyproject.com
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