Il “tristin” codino. Un biopic brutto a metà e… qualcosa di più.
Cimentarsi in un biopic, tra i vari generi cinematografici, è una delle sfide più impegnative, di quelle da far tremare le vene ai polsi anche ai registi più navigati. Se a questo aggiungi pure che la biografia presa in esame, nel film il “Divin Codino”, è quella dei più amati campioni nazionali del calcio, come lo è stato Roberto Baggio per migliaia di tifosi, l’impresa ha flebili speranze di riuscita: e così è stato, purtroppo.
Non piace e non entusiasma il film della regista Letizia Lamartire, prodotto da Fabula Pictures in associazione con Mediaset e distribuito in Italia da Netflix. Non piace prima di tutto perché non coglie i vari aspetti di una tra le vite sportive più sofferente e, parimenti, più famose del nostro sport nazionale. Inoltre, la tristezza è un interrotto filo comune che lega il plot narrativo dal primo fino all’ultimo fotogramma, dal primo fino all’ultimo primo piano, dal primo fino all’ultimo dialogo, impregnando tutti gli eventi, anche quelli che avrebbero meritato qualche sorriso in più. Niente da fare, in regia hanno deciso che era questo ciò che si desiderava mostrare al pubblico, un campione felice a metà e anche meno, dimenticando di mostrare virtuosismi, memorabili gesti atletici, indimenticabili vittorie, gioie personali e sportive, dove perfino l’assegnazione del Pallone D’oro è stato un evento di portata mondiale offuscato nel ricordo dal grigiore generale di una assillante, onnipresente, tristezza. Gli esagerati salti temporali hanno fatto il resto, incentrando la ricostruzione di una vita tra privato e pubblico con immancabili alti e bassi ma puntando, manco a dirlo, più sui secondi, mentre i primi sembravano appesi tra il cielo, un campo di calcio e… il nulla. Eppure, l’idea di raccontare la vita di un campione amato e rispettato da tutti non era malvagia, e riteniamo onesto precisare che l’attore Andrea Arcangeli, verosimigliante all’originale, ha fatto del suo meglio per ricostruire sguardi, movenze e gesti atletici simili a quelli del campione veneto, ma alla fine perdendosi anche lui in una sceneggiatura che possiamo definirla un melting pot tra buddismo, mantra, musica rock, dispiaceri e infinite frustrazioni familiari. Già, di fatto è esageratamente predominante il rapporto di amore/odio/incomprensioni con il padre che appare (ma sarà stato davvero così?) l’ineluttabile demiurgo della vita di un campione come Roberto Baggio che alla fine sembrava più il risultato di un esperimento di laboratorio sociale/familiare (leggi bugia da parte del genitore sulla promessa) riuscito male.
Da salvare, ma solo in parte, la narrazione della tenacia dell’uomo di fronte alle avversità che avrebbero stroncato chiunque, lo sguardo del bambino con i suoi sogni (alcuni irrealizzati) e il finale, ma proprio l’ultima scena finale, che ci ricorda l’umiltà di un campione che avrebbe meritato di più nel calcio, nella vita e…in un film. Ma purtroppo le produzioni delle piattaforme in streaming ci hanno abituato a tutto questo: pretenziose nelle idee di prodotti dai contenuti ammiccanti, cui spesso fa seguito un braccino un po’ troppo corto nel momento della sua realizzazione. Siamo coscienti che trattasi del prezzo da pagare per una rivoluzione cinematografica accelerata dalle ultime vicende mondiali. Ma questa è davvero un’altra storia di un nuovo modo di fare cinema che ancora non decolla del tutto.
Catania, 12 giugno 2021
Concetto Sciuto per Sport Enjoy Project Magazine
( Fonte foto Google immagini mymovies.it )
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