Ci prova nuovamente la consolidata coppia Ristagno – Felloni a mettere in scena l’ennesimo lavoro teatrale in una elaborata coniugazione tra recitazione, musica, danze e acrobatiche performance.

Uno spettacolo, rappresentato al Teatro Stabile di Catania, che è contenitore e contenuto di sé stesso per un delicato melting pot di tutto ciò che può comporre un’esistenza, non solo umana ma universale, in una lirica narrazione della più classica visione olistica dove l’insieme, come sempre, è superiore alla somma delle singole parti.

Tentativo azzardato – e riuscito? – quello di Ristagno, curatore dei testi, e di Monica a cui è stata affidata sia la regia, sia il ruolo di co-protagonista. Sì, perché sarebbe errato indicare un vero protagonista in questa miscela aggregante in un unico corpo tra natura e uomini, concetto rimarcato ad ogni nota, ad ogni passo di danza, ad ogni parola pronunciata e non, ed esteso, ed estendibile, a tutto ciò che ci circonda.

“L’uomo è un Dio per gli altri uomini”, giusto per citare Spinoza, perenne ombra e spirito dello spettacolo in un papabile panteismo imploso, compresso e pronto a deflagrare in ogni battuta, in ogni abbraccio, in ogni coralità, in quei corpi su corpi. Eppure, ed è qui l’idea portante dello spettacolo, il messaggio del “tutto in tutti” e viceversa, che ha unica origine, pur nella sua rizomatica, umana, diversità, procede per cerchi concentrici innescati da musiche che “danzano” su iridescenti scenografie, inerpicandosi su cordoni ombelicali sospesi tra cielo, terra e il nulla. Poi, loro, i diversamente abili all’interno di uno spettacolo che sembra sempre più cucito addosso per ogni differente attitudine, o forse sono le loro dissimili capacità che arricchiscono lo spettacolo, di certo lo modificano e in un unico senso: verso l’alto e l’altro per ottundere desuete alterità affinché, quest’ultime, non facciano più rima con diversità. Critiche? Sì. La non immediata lettura e decodifica dei compositi significati impressi dal suo autore a volte –  apparentemente  - disancorati da complessi significanti. Significati che, di conseguenza, transitano da ciò che doveva essere un’autoimmune autonomia a una inaspettata eteronomia vivendo non di una vita propria ma di quella che gli assegna ogni spettatore, e forse questa è l’altra vera forza di “Anima Mundi”, anzi probabilmente il suo precipuo scopo: capire chi siamo noi, chi è l’altro, per scoprire, guarda caso, che non c’è nessuna differenza.

Foto Antonio Parriniello