Il capo del mondo di Salvo Campisano: il metafilm denuncia che parla di Sè
Raccontare il proprio vissuto attraverso l’arte del cinema non è mai semplice. Raccontare del proprio vissuto riguardo le “disavventure” artistiche e denunciarle, si rischia davvero di rimanere impigliato in mille e più trappole tra melliflua retorica e un noioso “già sentito”. Occorreva l’anti déjà-vu per antonomasia, come la regia e sceneggiatura di un navigato di questo mestiere come Salvo Campisano, affinché si parlasse del paludoso mondo che spesso si cela dietro una produzione cinematografica, ma stavolta parlarne attraverso… sé stesso. Operazione ben riuscita, precisiamolo subito, anche se con qualche inevitabile pecca che però rende ugualmente giustizia a una produzione low cost dove volontà, passione e amore per la settima arte hanno sopperito, e bene, a ciò che muove il mondo: il denaro. Dicevamo originalità del suo ideatore, ed effettivamente più di una trovata artistica ha allietato, pur nel suo intento densamente, quanto decisamente, provocatorio, il folto pubblico che ha riempito una delle sale più grandi del Cinestar di San Giovanni la Punta. Pertanto, la (non) trama del film, tutto a presa diretta, anzi “direttissima”, descrive, più che racconta, praticamente come fosse in tempo reale, decenni di sogni rubati, come la realizzazione di una importante produzione e distribuzione di un film. Passionale sogno inquinato da tentativi di truffe, volgari personalizzazioni, snervanti decisioni del regista per arginare raffazzonati addetti ai lavori presenti in ogni dove, e tutto questo tra rabbia e amari sorrisi che si alternavano in un racconto quasi da doc film. Bravi gli attori che hanno sposato e impersonato marcate (anche troppo?) caratterizzazioni con ammiccanti richiami a tipiche espressioni dialettali sostenute da storpiature di termini derivate da inguaribile ignoranza e atteggiamenti dove diversi stereotipi sono stati più funzionali al film che per strappare un sorriso al pubblico, senza dimenticare quanto di vero vissuto ci sia anche in tutto questo.
Pecche dicevamo, impossibile non trovarne, ma tutte contenute e considerando i costi irrisori di produzione, parliamo di un miracolo artistico e stare qui a sottolinearle più del dovuto sarebbe irriverente, così come lo sarebbe non evidenziarle, ma sempre con lo stesso garbo del suo regista. Pertanto, il fastidioso tremolio della telecamera, a volte l’esagerata interpretazione del personaggio popolare, qualche ripresa dubbia, sono stati tutti peccati veniali che non adombrano per nulla un lavoro che meriterebbe la giusta eco, non fosse altro per la sua originale trasposizione in immagini di una miriade di problemi vecchi come il cinema stesso e note ai più. Un plauso va a Turi Condorelli e Mara Di Maura nel recitare ruoli diametralmente opposti, un diavolo e acquasanta che nel contesto del film hanno dato il giusto spessore al senso dello stesso. Così come l’incontenibile Concetta Lazzara e… Giuseppe Castiglia che ha prestato la sua immagine anche se per un ruolo fuori dall’usuale. Perfettamente calati ognuno nel rispettivo personaggio anche Giuseppe Di Maura e Dino Costa.
Una produzione cinematografica che ha il principale merito di chiudersi su sé stessa con un video finale di denuncia dello stesso Campisano che di certo non le manda a dire rendendo ancora più reale il reale. Un monologo dove il cuore ha fatto davvero rima con amore ma anche, e soprattutto, con passione.
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